di Lü Jing
Lü Tongliu (1938- 2005) è stato il più grande italianista cinese, per oltre quarant’anni con il suo lavoro di traduzione dei più importanti classici della letteratura italiana ha contribuito agli scambi tra Italia e Cina. Sua figlia, la Professoressa Lü Jing, docente universitaria, ha incontrato il pubblico di Roma 9 per condividere alcuni aneddoti della vita professionale del padre. L’incontro è stato anche un’occasione per parlare di traduzione, delle tecniche utilizzate e delle principali difficoltà che si possono incontrare. Questo il suo intervento in ricordo del padre
Ringrazio tanto la dottoressa Hu Lanbo e il centro culturale Roma 9 che mi ha dato questa opportunità di parlare di mio padre Lü Tongliu, del suo lavoro come traduttore e della sua vita.
Sono trascorsi ormai tredici anni dalla sua scomparsa e ancora ricordo vivamente il suo discorso inaugurale scritto per il Convegno Internazionale che si è svolto a Pechino nell’ottobre del 2005. Questo fu l’ultimo suo intervento pubblico. Usò un linguaggio estremamente sintetico. Sembrava che volesse dare una conclusione alla sua lunga ricerca e alla sua ricca esperienza culturale: disse che la traduzione letteraria è un lavoro estremamente difficile; non esiste in realtà una traduzione letteraria equivalente all’originale, una traduzione realmente fedele al significato dell’opera originale. E citando Il filosofo e critico letterario Benedetto Croce, ha ricordato come sia impossibile realizzare una traduzione letteraria, perché nel rapporto con l’opera originale il traduttore si troverà sempre nella difficile situazione di dover scegliere tra una traduzione «bella ma infedele» e una «brutta ma fedele». Menzionò anche l’umanista cinese Hu Shi, il quale dichiarava che, quando componeva saggi o opere narrative, riusciva a scrivere settecento o ottocento caratteri al giorno, mentre quando traduceva riusciva a scriverne solo quattrocento o cinquecento. Papà citava ancora un altro grande umanista cinese, Guo Moruo, asserendo: «Quando si è impegnati nella creazione letteraria, si ha una doppia responsabilità, verso se stessi e verso i lettori. Quando si traduce la responsabilità è tripla, verso il lavoro originario, verso se stessi e verso il lettore». Guo Moruo sospirava: «Che fardelli pesanti sono queste tre responsabilità».
Il noto scrittore cinese contemporaneo Yan Lianke ha affermato che «la generazione degli scrittori cinesi di cui faccio parte è cresciuta nella lettura delle opere straniere, dalle opere classiche fino al XIX e XX». Possiamo quindi confermare che la fioritura della letteratura cinese a partire dalla fine degli anni Settanta non può non tener conto del contributo dei bravi e grandi traduttori letterari cinesi.
Vorrei raccontare brevemente la formazione e l’esperienza lavorativa di mio padre. Lü Tongliu è il quarto di cinque figli, nato ottant’anni fa a Danyang, cittadina che si trova nella provincia meridionale dello Jiangsu. Forse il suo destino comincia proprio a Danyang, cittadina nota per l’abbondanza di pesci e riso e per aver dato i natali a numerosi studiosi. Era l’8 gennaio del 1938, in piena invasione giapponese con tutta la famiglia in fuga, quando mio padre venne al mondo in una stalla nei pressi del fiume Yangze. E poiché si trattava della sesta sosta del lungo cammino, gli fu assegnato il nome Liu (che in cinese significa sei) come suffisso a Tong, che era già stato deciso per i figli della sua generazione.
Comincia già da ragazzo a nutrire un particolare interesse verso gli studi umanistici leggendo un’infinità di racconti, poesie, romanzi, saggi e articoli scritti da autori cinesi e stranieri. Successivamente riuscì a superare brillantemente l’esame statale per poter studiare in Russia, che raggiunse nel 1956 iscrivendosi alla Facoltà di Chimica presso l’Università di Leningrado (oggi San Pietroburgo), ma non abbandonò mai la speranza di poter cambiare disciplina. L’occasione arrivò quando venne per caso a sapere che nel Dipartimento di Lingue e Letterature cinque dei sei studenti cinesi che studiavano l’italiano in realtà amavano le materie scientifiche e l’ingegneria. Dopo neanche un anno, tre di loro si erano ammalati e stremati avevano comunicato la propria rinuncia venendo subito rimpatriati. Cosi mio padre fece di tutto per incontrare il Consigliere all’Istruzione dell’Ambasciata cinese in URSS, al quale espresse la propria speranza di essere assegnato alla specializzazione in lingua italiana.
La principale ragione che mio padre addusse per avanzare questa richiesta fu che in Cina una specializzazione in italianistica ancora mancava e rischiava di mancarvi a lungo; inoltre, sebbene la Cina e l’Italia non avessero ancora avviato relazioni diplomatiche, bisognava pur considerare che a lungo termine anche questa disciplina avrebbe avuto dei talenti. Alla fine, tramite accordi fra l’ambasciata cinese e le autorità universitarie, nel settembre del 1957 fu trasferito al Dipartimento di Lingue e Letterature, con specializzazione in italianistica.
Diversi anni dopo mio padre spiegò a un giornalista italiano che lo intervistava la ragione che lo aveva spinto a scegliere la lingua dello Stivale. Mentre ancora frequentava le scuole medie gli era capitato di leggere alcuni libri su Roma e l’Italia; la cultura antica e fiorente di quei luoghi lo aveva profondamente colpito, instillando in lui un forte interesse per quel Paese geograficamente così lontano, ma letterariamente così vicino. Questa è stata la prima sua infatuazione per l’Italia.
Gli anni trascorsi come studente in Russia, e in particolare gli ultimi cinque anni dedicati allo studio dell’italiano, sono stati decisivi nell’orientare il suo destino. Mio padre ricordava con molta nostalgia quel periodo così frenetico e al contempo così vitale: doveva studiare moltissime materie, andava a lezione al mattino presto e tornava a casa solo alle sette di sera. Tuttavia, proprio le severe richieste dei professori gli permisero di acquisire delle solide fondamenta, di cui ha beneficiato per tutta la vita.
Papà riteneva che chi si occupa di letteratura debba avere una formazione vasta e plurale, che debba trarre nutrimento delle fonti più disparate, espandere la propria visione del mondo e coltivare il proprio sentire. A San Pietroburgo ogni anno si svolgeva la settimana culturale della notte bianca: lui era solito andare a vederla, c’erano spettacoli, letture di poesie nelle piazze e nelle librerie a cura di romanzieri e poeti. Nel tempo libero leggeva la letteratura russa e spesso andava a vedere film russi oppure all’opera, in teatri sontuosi e sfarzosi. Mentre era al quarto anno di studi all’estero, sfruttò le vacanze estive per provare a fare la sua prima traduzione: si trattava del racconto Felicità in vetrina di Moravia, che gli valse diffusi apprezzamenti.
Nel 1960/61, periodo in cui studiava in Russia, chiese ad una sua amica se conoscesse qualche italiano desideroso di corrispondere con uno studente cinese, italianista. Era disponibile una studentessa di lingua e letteratura straniera moderna, che aveva iniziato un corso di russo di nome Elisabetta. Iniziò così la loro corrispondenza, trasformatasi presto in amicizia e consolidatasi poi con il rientro di mio padre, una volta laureato, nella Repubblica Popolare Cinese. Ancora oggi mantengo questa bella amicizia con l’amica di papà e con i suoi figli che vivono a Milano, chiamandola “Zia Eli”.
L’argomento principale della corrispondenza era il suo lavoro di traduttore che tanto amava. Zia Eli cercava di soddisfare al meglio le sue richieste di delucidazione sull’interpretazione di aspetti storici e linguistici relativi alle opere degli scrittori che andava traducendo, da cui emergeva il suo profondo desiderio di capire bene non solo quanto l’autore volesse dire, ma anche il contesto in cui si muoveva.
Nella lettera del 6 aprile 1984, mio padre così si esprimeva all’amica Eli per il suo prezioso aiuto mentre lui stava traducendo il romanzo di Manzoni I Promessi Sposi: «Ti sono gratissimo dei tuoi suggerimenti a proposito di come cogliere bene lo spirito manzoniano. Infatti è difficile tenere presente la complessità di un’opera d’arte in originale e tradurla in un’altra lingua. Cerco di fare questa difficilissima impresa nel modo migliore e ad ogni costo, perché l’edizione cinese uscirà nella collana I classici della letteratura straniera che raccoglie soltanto i capolavori stranieri e le traduzioni migliori».
Queste sue parole sostanzialmente si ritrovano nel suo ultimo discorso nel 2005: «Quando ci si dedica a una traduzione letteraria si fa qualcosa di impossibile. Ma noi siamo capaci di realizzare qualcosa di impossibile: per noi questa è arte. In sostanza l’arte vuol dire vincere le difficoltà».
Finito lo studio in Russia, nel 1962 papà tornò in Cina. Dopo l’inizio della Rivoluzione Culturale, come molti altri intellettuali cinesi fu rieducato: dovette lavorare in campagna per due anni, facendo lavori fisici pesanti e per dieci lunghi anni fu costretto a non leggere alcun libro italiano, affrontando infinite sofferenze. È un ricordo doloroso. Quando nel 1972 tornò dalla scuola per i quadri di partito, mentre attendeva di riprendere l’attività lavorativa, dedicò intere giornate alla lettura, redigendo una grande quantità di appunti e annotazioni: è proprio in quei giorni di riposo che ha divorato d’un fiato la Divina Commedia. Nello stesso periodo ha letto il Decamerone, il Canzoniere petrarchesco e ancora i racconti di Moravia e le poesie di Montale e Quasimodo. Questo periodo di intense letture, durato circa due anni, gli è stato molto utile per la sua formazione. Quando finalmente poté ricominciare col suo lavoro, dedicò tutto se stesso alla amata impresa. «Mi trovo in uno stato di estasi. Finalmente posso svolgere quello che più amo». Sono parole di mio papà che non scorderò mai. E in quasi mezzo secolo ha svolto davvero tanto. Ha presentato più di cento scrittori italiani; ha organizzato moltissimi convegni nazionali ed internazionali sulla divulgazione della cultura e letteratura italiana in Cina, perché lui era consapevole, purtroppo, che per molto tempo i cinesi hanno conosciuto ben poco di questa nazione, così importante nello scenario letterario europeo. Era un terreno vergine che attendeva di essere esplorato. Le ricerche di mio padre hanno avuto un grandissimo respiro: egli riteneva che la traduzione letteraria non potesse prescindere dalla ricerca in letteratura e che queste due attività fossero due lati della stessa medaglia. Il suo lavoro si è incentrato in particolare su due aspetti: il Rinascimento e la letteratura del XX secolo. Ha comunque studiato, tradotto e commentato circa 180 autori italiani di spicco che si sono succeduti dal Medioevo al Rinascimento, fino all’epoca moderna, tra cui Dante, Boccaccio, Petrarca e ancora, gli autori più attivi e influenti dell’epoca premoderna e moderna come Manzoni, D’Annunzio, Montale, Quasimodo, Pirandello, Leopardi, Calvino, Moravia, Sciascia, Fo e altri ancora. Ha inoltre intervistato tre grandi scrittori che sono Moravia, Calvino e Sciascia.
Per lui tradurre era un modo per mettere in comunicazione due civiltà; sosteneva che un traduttore dovesse conoscere approfonditamente entrambe le civiltà ed essere bravo a presentare l’una all’altra, sfruttando al meglio la lingua di un determinato momento storico.
Faccio un esempio: quando mio padre ha iniziato a tradurre I Promessi Sposi è ovviamente partito dal primo capitolo. Tuttavia non ha continuato immediatamente con il secondo e poi il terzo, bensì con il nono e il decimo. Perché questa scelta? Possiamo dire che considerava quei tre particolari capitoli come un campo aperto per sperimentare e verificare le sue capacità.
Nel primo capitolo, vi è la descrizione di questa coppia di giovani, Renzo e Lucia, prossimi alle nozze. Esso però inizia con la descrizione del paesaggio circostante al Lago di Como, un passo pieno di romanticismo e carico di tensione poetica. Si tratta di una delle parti più famose dell’intera opera, studiata e conosciuta universalmente. Prima di tradurre, mio padre leggeva e rileggeva questo incipit, cercando materiali relativi ad esso per studiarlo e capirlo fino in fondo. Riteneva infatti che fosse estremamente importante tradurre alla perfezione il passo, poiché fondamentale per l’intero romanzo e influenzava lo stile di tutta l’opera. Dal punto di vista letterario, Manzoni descrive il panorama dei luoghi in cui la vicenda è ambientata. La natura stessa è inoltre uno specchio dello spirito dei personaggi, suscitando nel lettore comprensione ed empatia. Per arricchire ulteriormente l’immagine, mio padre attinse anche alla sua esperienza personale, ricordando la sua personale visita a Como nel 1980. Si tratta di una immagine così piacevole, che fu per lui indimenticabile.
I capitoli tradotti successivamente sono il nono e il decimo, considerati da mio padre come fondamentali per la fase iniziale della traduzione. Come mai? Il motivo della sua scelta risiede nella figura del protagonista dei due capitoli: suor Gertrude. Una monaca di clausura, la monaca di Monza, che, a causa della posizione della sua famiglia, ha dovuto rinunciare all’amore e alla felicità per prendere i voti. Analizzando la sua psicologia complessa, notiamo che la sua è una personalità tormentata e contraddittoria, che la porta a tormentare Lucia, rifugiatasi nel suo convento per sfuggire a don Rodrigo e rimaniamo colpiti dalla bravura di Manzoni nel descrivere la vita tortuosa della donna. Nel nono e decimo capitolo, infatti, l’autore narra la storia della Monaca. Ecco perché essi possono essere considerati come indipendenti dal resto della vicenda, come un romanzo nel romanzo, e dunque fondamentali per la traduzione dell’intera opera. Papà pensava che, se fosse riuscito ad afferrare le caratteristiche dello stile manzoniano, avrebbe gettato solide basi per la traduzione dell’intera opera, spianandosi la strada.
Nonostante la traduzione dei Promessi Sposi sia stata interrotta per vari motivi per molto tempo, avendo già terminato i tre capitoli prima citati, il lavoro di traduzione del resto dell’opera, una volta ripreso, è proceduto molto bene e si è concluso con successo.
Sebbene la traduzione letteraria sia ovviamente un lavoro faticoso, in cinese diciamo “苦中有乐”, che significa “in mezzo all’amaro vi è la gioia”, un concetto che può essere capito soprattutto da chi traduce. Papà diceva che il lavoro di un traduttore letterario è faticoso ed spesso in compagnia della solitudine. La traduzione, quindi, è come un ponte che collega l’amicizia tra due culture e tra due popoli.
Papà non ha mai avuto il coraggio di accettare di iniziare a tradurre un’opera letteraria senza averla studiata bene. La formazione universitaria in Russia e all’Istituto delle Ricerche sulla Letteratura Straniera di Pechino gli ha fatto acquisire l’abitudine di accompagnare la traduzione letteraria alla ricerca. Quando doveva scrivere un testo critico letterario, cercava di tradurre le opere relative ai temi di ricerca.
È noto che la letteratura italiana è poco conosciuta in Cina e non bastano solo la presentazione e la ricerca sulle opere italiane, dal momento che i lettori cinesi non hanno familiarità con questo terreno. Dunque, dopo la presentazione delle opere, il compito degli studiosi è quello di indicare quali siano le opere da leggere.
Nel 1982 papà pubblicò una lunga tesi sui racconti di Moravia, mentre l’anno dopo fu pubblicata una raccolta di racconti scelti, sempre di Moravia, che ottenne dei buoni commenti.
Tradurre un’opera non equivale semplicemente a trasporla in un’altra lingua, perché bisogna riuscire a trasmettere ai lettori il senso e il gusto del testo d’origine, soprattutto quando si tratta di tradurre le poesie.
La poesia italiana per mio padre ha un particolare fascino. Nella sua raccolta della poesia italiana del Novecento, ha raccolto 121 poesie di 39 poeti da lui tradotte, includendo D’annunzio, Marinetti, Buzzi, Palazzeschi, Montale, Quasimodo, Ungaretti, Luzi, Rodari... Affermava che «questi poeti italiani con i loro bei versi hanno arricchito i tesori della poesia contemporanea mondiale».
Jidi Majia, un amico più giovane di lui e vice presidente dell’Associazione degli Scrittori Cinesi, una volta ha detto che mio padre «con il suo superbo lavoro di traduzione era in grado di trasformare la lingua italiana in una lingua cinese di squisita eleganza». Forse è proprio grazie alle sue traduzioni delle opere dei giganti della poesia italiana che, dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, io e molti altri abbiamo cominciato a leggere e amare appassionatamente la poesia italiana moderna e contemporanea; ne siamo tutti fortemente influenzati, in particolare modo dai grandi esponenti dell’ermetismo. In questo ambito, il contributo di Lü Tongliu per promuovere un prospero dialogo tra la poesia cinese e quella italiana è indelebile, i poeti cinesi di oggi non lo dimenticano.
“ …indeterminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete”. Questi sono gli ultimi versi de L’infinito di Leopardi, i quali mi risuonano spesso quando il mio ricordo va al mio caro papà.