Riportiamo l’articolo di Alberto Bradanini* uscito sul numero di febbraio della rivista
La sintesi è ben più difficile dell’analisi. Faccio dunque appello all’indulgenza del lettore se non riuscirò a riprodurre la complessità delle relazioni tra le due nazioni. La rivalità tra Cina e Usa, che Trump ha trasformato in una guerra fredda, riguarda tre sfere, l’economia, la geopolitica e l’ideologia. Nell’analisi dei due sistemi, emerge una differenza fondamentale. Negli Usa, il controllo degli asset economici e sociali è nelle mani dell’oligarchia corporativa. In Cina, esso si trova nella classe di stato (Partito, burocrazia e aziende pubbliche). Per tale ragione il cambio di presidenza negli Usa non pregiudica il potere sostanziale, mentre in Cina (e Paesi simili) il passaggio da una generazione a un’altra è un momento critico, potenzialmente traumatico per la stabilità. Il sistema cinese rappresenta dunque una sfida al liberismo corporativo e un pericoloso modello per i popoli emergenti delusi da quello occidentale.
Gli Stati Uniti, la sola nazione necessaria al respiro del mondo (secondo il patologico Bill Clinton, 1999), impongono al mondo, con la persuasione o la forza, il duplice precetto del liberismo individualista-corporativo e del parossismo consumistico. Le sue istituzioni si basano sul metodo democratico formale e su una trinità, esistenza di dio, proprietà privata e libere elezioni (tra partiti gemelli, ai quali è preclusa la messa in discussione del caposaldo capitalistico e del principio dell’eccezionalismo), mentre la radice del potere non viene mai intaccata.
Emerge così la forma storica di un’America che s’impone con le guerre e centinaia di basi militari sparse ovunque, ricorrendo al diritto internazionale in modo selettivo. È lungo l’inventario degli accordi dai quali gli Usa sono usciti, minando la stabilità nel mondo. Il prof. Lindsey O’Rourke (Boston College) ha prodotto un catalogo di 84 Paesi nei quali gli Usa hanno orchestrato cambi di regime a partire dal 1947 (venti solo nell’ultimo decennio).
La Cina è a sua volta il Paese dell’indugio riflessivo, del limite autoimposto, dove è assente quel messianismostoricistico della divinità rivelata (biblica o coranica) che si occuperebbe dei destini del mondo. L’avvenire dirà se la tradizionale postura del limite verrà abbandonata e anche la Cina diventerà una potenza imperialista. Per ora, Pechino resta guardinga persino nel linguaggio, evitando gli attriti, mostrando disponibilità al compromesso e mirando a un multipolarismo anti-egemonico, politico ed economico.
La Cina punta a costruire un socialismo con caratteristiche cinesi, non ben decifrabile eppure lontano dal binomio del filosofo F. Fukuyama, democrazia liberale ed economia di mercato.
Se il dibattito di un tempo tra riformisti e conservatori si è chiuso con la vittoria dei primi, una nuova antinomia si pone oggi tra neoliberisti e statalisti. I primi – il partito americano, che gli Usa seducono con i diritti umani, in particolare quello alla proprietà privata illimitata – spingono per guadare in fretta la riva verso il capitalismo; i secondi si ergono a difesa di uno Stato forte in economia e a tutela dei beni sociali.
D’altro canto, negli ultimi quarant’anni l’ingiustizia distributiva e la sorveglianza sociale non hanno impedito alla dirigenza di assicurare all’insieme del popolo cinese, compresi coloro che ne hanno beneficiato di meno, condizioni di vita decisamente migliori rispetto al passato.
Sino all’avvento di Donald Trump costi e benefici trovavano un equilibrio tra i due Paesi. Per gli Usa, produzione a basso costo e attività inquinanti delocalizzate in Cina, import di beni a basso costo che hanno contenuto l’inflazione, joint ventures e fruttuosi investimenti; per la Cina, import di capitali e creazione di milioni di posti di lavoro, acquisizione di know how e tecnologie, accesso al mercato americano, un flusso costante di valuta, crescita imprenditoriale e di capacità industriale.
Secondo il Department of Commerce, l’interscambio ha superato nel 2019 i 558 miliardi di dollari, con un disavanzo americano superiore a 345 miliardi. Gli investimenti americani in Cina hanno raggiunto i 260 miliardi di dollari a fine 2016 e da allora sono ancora cresciuti, nonostante le dispute commerciali. Quelli cinesi in America, che nel 2015 erano circa 63 miliardi, nel 2016 sono cresciuti di oltre 45 miliardi, per ripiegare poi a causa delle politiche di Trump.
Tra i due sistemi è cresciuto un legame di interdipendenza che non è facile demolire. Il recente allentamento dei vincoli deciso da Pechino sui capitali in entrata ha spinto molte società Usa d’investimento – BlackRock, Vanguard, JP Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, American Express – ad aprire uffici in Cina, che sta dunque diventando un altro baricentro della finanza mondiale.
La sfida tra Cina e Stati Uniti si estende poi al fronte militare. Le basi americane nel mondo sono oltre 800, la Cina ne ha una sola, a Gibuti; gli Usa hanno dodici portaerei, la Cina due. Le testate nucleari cinesi non arrivano a 300, migliaia quelle americane già operative e altrettante in manutenzione. Se la maggior disponibilità di risorse consente a Pechino di ampliare il budget della difesa, questo resta tuttavia in linea con la demografia, la geografia e l’economia del Paese.
Quanto ai diritti umani, la nozione cinese è diversa da quella occidentale. Per Pechino, i diritti economici, vale a dire l’aspirazione a una vita dignitosa, sono il primo e fondamentale diritto umano. Le cosiddette libertà civili e politichesono un lusso per un tempo futuro. Gli Usa poi hanno poche chance di farsi ascoltare, alla luce della perdita di credibilità, tra guerre illegittime (Iraq, Libia, Siria…), doppi standard (per l’America solo i nemici violano i diritti umani) e gravi violazioni (guerre illegali, Guantanamo, Abu Ghraib, torture, extraordinary rendition, omicidi ‘al drone’ e così via).
Quanto alla trappola di Tucidide – vale a dire la pretesa inevitabilità di un conflitto tra la potenza in ascesa e quella in (relativo) declino – si tratta di una narrativa fabbricata dal complesso militare-industriale per far crescere il budget della difesa, che non considera nemmeno le implicazioni dell’arma atomica. Persino il confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica si è chiuso senza un conflitto, e per cause endogene più che esogene, a ulteriore smentita del paradigma del grande storico greco, il quale del resto non era sostenitore di alcun automatismo su questioni così complesse.
Nella partita per la supremazia, gli Usa hanno a lungo oscillato tra containment ed engagement, dopo aver scartato un più sensato appeasement, l’unico capace di gestire le differenze, scegliendo infine il containment. Una reciproca disponibilità al compromesso e la rinuncia all’opzione della forza sarebbero un ottimo inizio, sulla base del principio di coevoluzione, che indica il perseguimento dei rispettivi interessi collaborando quando le posizioni coincidono e lavorando a un compromesso nelle altre circostanze, riducendo al minimo i rischi dell’escalation.
Se è indubbio che la Cina dovrà affrontare prima o poi il tema della libertà e della partecipazione al potere, anche l’Occidente deve venire a capo del nichilismo, della mercificazione della persona umana e dell’assenza di valorazione etica. Sia l’Occidente che la Cina sono dunque chiamati a cedere spazi di sovranità culturale e ideologica in un processo di reciproca positiva contaminazione a favore di un mondo plurale, più libero e più giusto.
* Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i numerosi incarichi ricoperti, si è occupato di Cina per molti anni, è stato (1991-1996) Consigliere Commerciale presso l’Ambasciata a Pechino, Console Generale d’Italia ad Hong Kong (1996-1998), Coordinatore del Comitato Governativo Italia-Cina alla Farnesina (2004-2007) e Ambasciatore a Pechino (2013-2015). Alberto Bradanini è stato anche Ambasciatore d’Italia in Iran (2008-2012) ed è ora Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea. Ha pubblicato il libro “Oltre la Grande Muraglia” (Ed. Bocconi, 2018).