È il nuovo enfant prodige del cinema cinese il cui stile recondito ed evocativo ha abbagliato la critica internazionale
di Andrea Venuti
Nel 2015 un giovanotto cinese sconosciuto attira su di sé l’attenzione meritandosi il plauso della critica internazionale grazie al suo primo lungometraggio, vincitore a Locarno del premio al miglior regista nella sezione Cineasti del presente. Il giovane regista è Bi Gan e il film Kaili Blues, un’opera fresca e seducente, che si distacca, almeno superficialmente, da un certo cinema impegnato tipico della sesta generazione, privilegiando invece una forma innovativa ed empirica, che si ripresenta poi nel suo lavoro successivo.
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REGISTA PER CASO
In una lunga intervista rilasciata alla nota società The Criterion Collection, Bi Gan afferma di essersi avvicinato alla settima arte in tarda età. Negli anni adolescenziali vede davvero pochi film e, tolto l’interesse per alcune commedie dell’hongkonghese Stephen Chow, di cui apprezza l’insolito umorismo, raramente si reca al cinema. Solamente durante la carriera universitaria, s’imbatte casualmente nelle opere del maestro sovietico Tarkovskij, rimanendone affascinato al punto da spingerlo a diventare un regista.
Nel 2010, nonostante una scarsa conoscenza in materia, realizza da autodidatta e in modo indipendente il corto South, vincendo a sorpresa il primo premio al Guang Sui Ying Dong Film Festival. Due anni dopo, con Diamond Sutra bissa il successo, ottenendo una menzione speciale alla 19esima edizione di Hong Kong Ifva, manifestazione organizzata dall’Hong Kong Art Centre. Il suo secondo corto si presenta come una sorta di poesia visiva provocatoria ed elegante, che ruota intorno alla storia di un omicidio verificatosi in una cittadina isolata.
L’apprezzamento riguardo questi primi lavori lo convincono a concentrarsi definitivamente sul settore cinematografico e nel 2015 tutti i suoi sforzi si concretizzano in Kaili Blues.
UN NUOVO ARTISTA
Kaili Blues, fin dalle prime immagini, emana una forte sete di cinema d’essai, libero da ogni schematismo e fedele a una visione personale che, seppur derivativa da alcuni grandi autori, dal già citato Tarkovskij a Hou Hsiao-hsien o Apichatpong Weerasethakul, mantiene una sua precisa ubicazione, dando vita a un nuovo e particolare linguaggio, distinto da elementi e situazioni visionarie. Bi Gan ragiona attentamente sulle potenzialità espressive del mezzo cinematografico, avvalendosi di due elementi peculiari: il sogno e la poesia. Il protagonista Chen Sheng (Yongzhong Chen), medico di provincia, compone poesie personali altamente riflessive e metafisiche, decantate da lui stesso con voce fuori campo nel corso dell’opera, capaci di amalgamarsi perfettamente a un contesto in bilico fra sogno e realtà.
La regia è complessa e articolata, non a caso il film si apre con un piano sequenza ardito, costituito da una carrellata circolare che introduce lo spettatore nello studio lavorativo di Sheng. Il regista, nella prima mezz’ora, privilegia la macchina da presa fissa, unita o al campo totale oppure alternata a dettagli evocativi, il tutto serve ad accentuare una certa dimensione sognante, quasi spirituale. Alcuni soggetti, ad esempio, parlano apertamente dei loro sogni, rammentando episodi significativi delle loro vite, come un amore perduto o paure recondite e intangibili.
Nella seconda parte, pur mantenendo sempre vivida un’atmosfera onirico-riflessiva, Bi Gan cambia le carte in tavola, realizzando un vero e proprio road movie con il protagonista in viaggio alla ricerca di suo nipote. In questa circostanza diventa fondamentale l’utilizzo del piano sequenza, marchio di fabbrica del cineasta, e oltre a seguire passo passo i vari spostamenti di Sheng, l’andamento della macchina da presa risulta particolarmente incalzante e accompagna lo spettatore alla scoperta di luoghi arcaici e sperduti sommersi da una vegetazione ricchissima. La pellicola è un esordio folgorante, difficile da dimenticare.
LA CONSACRAZIONE DEFINITIVA
Alla 71esima edizione del Festival di Cannes, nella sezione Un Certain Regard, viene presentato Long Day’s Journey Into Night, secondo lungometraggio di Bi Gan. L’autore conferma nuovamente le sue eccelse doti, focalizzandosi meticolosamente sul concetto di tempo, percepito come una grande, indecifrabile ed inarrestabile forza dell’universo, che ci accompagna in tutte le fasi della nostra vita. A tal proposito ricorre a una rappresentazione insolita, già presente in Kaili Blues, focalizzandosi su dettagli di orologi rotti e lasciando allo spettatore la possibilità di effettuare tutte le varie interpretazioni del caso, dal rimuginare su decisioni errate fino alla volontà di rimettere in sesto la propria vita.
Rimanendo sul compendio tematico, è doveroso citare sia i vari richiami autobiografici, come la città natale dell’autore che è una vera e propria protagonista dell’opera, sia un’attenzione inconsueta verso luoghi e scenari sconosciuti al grande pubblico e quasi anacronistici se paragonati alle metropoli cinesi ultra-tecnologiche. Nel film di Bi Gan non mancano sale da biliardo sperdute nel nulla o strutture in declino con mura scrostate e interni estremamente poveri, spazi che emanano ugualmente una magia senza tempo che li rende suggestivi, soprattutto agli occhi di chi non conosce il territorio. L’intreccio è, inoltre, scandito da un’intrigante storia d’amore, relazione complessa e spinosa, fra il protagonista e una misteriosa ragazza legata ad un gangster. Il sentimento dell’uomo si trasforma presto in una vera e propria ossessione incurabile, richiamando con arguzia diverse opere di Wong Kar-wai.
Long Day’s Journey Into Night presenta, dunque, una serie di costanti precise, alquanto fascinose e in parte viste nel suo film precedente. Ma l’aspetto predominante che ammalia qualsiasi spettatore è la regia incredibilmente ricercata, audace e sperimentale. Basti pensare ai due long take atipici che aprono il film: il primo inizia inquadrando il protagonista Lou Hongwu per poi abbandonarlo e mostrare, attraverso una carrellata laterale molto lenta, un paesaggio agreste; il secondo è essenzialmente l’opposto, ossia il movimento di macchina si avvia riprendendo l’interno di un locale e poi si concentra sull’uomo che sta interloquendo con una donna in riferimento al suo passato. Entrambe le situazioni riflettono una sorta di smarrimento e confusione del soggetto.
La seconda parte del film è sferzante e visionaria, l’autore ricorre ad un piano sequenza in 3D di ben cinquantanove minuti, introdotto in modo altamente originale. Lou Hongwu si reca in un cinema di periferia, indossa gli occhialini 3D e inizia a guardare un film il cui titolo è sorprendentemente Long Day’s Journey Into Night. Dopo uno stacco di montaggio, lo spettatore si trova catapultato all’interno dell’opera e, guarda caso, il protagonista è sempre Lou Hongwu, che si ritrova asserragliato in una grotta buia e isolata, abitata da uno strano ragazzino. L’uomo afferma di essersi addormentato durante la visione e, una volta terminata la pellicola, si ritrova improvvisamente in quel luogo. A questo punto il ragazzo decide di aiutarlo a ritrovare l’uscita, ma prima deve batterlo a ping pong. È una scena surreale e grottesca e non sarà l’unica.
Bi Gan con solamente due lungometraggi all’attivo è riuscito a creare un immaginario ricco e visionario. I suoi film esplorano il tempo e le memorie attraverso una logica onirica in grado di fluttuare elegantemente fra passato, presente e futuro.
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