Nuove accuse infondate incitano a non comprare il cotone dello Xinjiang per via delle presunte “violazioni dei diritti umani”
L’annuncio del rivenditore di moda H&M di vietare qualsiasi tipo di “lavoro forzato” nella sua catena di approvvigionamento nello Xinjiang ha letteralmente infuriato i cittadini cinesi. Difatti, a seguito della sospensione delle licenze da parte dell’organizzazione internazionale della Better Cotton Initiative (BCI), con la quale la Cina collabora da molto tempo essendo lo Xinjiang l’area più importante di piantagione di cotone in Cina, con rese dell’85% della produzione totale del Paese, Pechino ha tentato di comprendere le ragioni che hanno spinto la BCI e alcune multinazionali quali Adidas e Nike a interrompere le attività di acquisto di cotone nella regione. Tuttavia, l’organizzazione ha avanzato vaghe ragioni riguardo il “complicato contesto internazionale”, sebbene sia certificato che nello Xinjiang viga la protezione delle colture, del suolo e della biodiversità nonché la tutela del diritto del lavoro.
Al riguardo, come ha affermato l’Ufficio di Shanghai della BCI, «le revisioni, condotte secondo la procedura standard sulla lavorazione del cotone, attestano che non vi è alcuna violazione del diritto del lavoro in tutti i programmi nella regione dello Xinjiang». Semmai, pur essendo la massima organizzazione nell’industria internazionale del cotone e sebbene inneggi spesso slogan sui diritti del lavoro e sulla protezione ambientale, è stata la BCI ad aver ricevuto diverse lamentele dai fornitori e dai consumatori per aver ignorato il controllo di qualità dei suoi prodotti, così come i problemi di sfruttamento lavorativo in alcuni Paesi, come l’India. Di conseguenza, appare chiaro che la sospensione delle attività in Cina, con una perdita del 90% degli affari della BCI, derivi da un compromesso con la narrativa occidentale del “lavoro forzato” la quale, allo stesso tempo, mette in dubbio la credibilità di BCI nella definizione dei criteri per le industrie di filatura del cotone.
Inoltre, nell’estate del 2020, il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha istituito il protocollo US Cotton Trust intentando una causa contro la BCI, poiché ansioso di assumere un ruolo guida nella definizione delle regole nelle industrie tessili internazionali. Pertanto, all’interno di tale contesto di competizioni e di distorsioni, e in risposta al boicottaggio di H&M, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying ha affermato che «la Cina non accetta che le società straniere diffamino i suoi affari: infatti, le accuse di “lavoro forzato” non sono altro che menzogne fabbricate da organizzazioni anti-cinesi; per di più, rifiutare il cotone dello Xinjiang, uno dei migliori al mondo, rappresenta una grossa perdita per i marchi mondiali». Tali irragionevoli diffamazioni hanno portato i rappresentanti delle grandi industrie cinesi a credere che sia tempo di ridurre la dipendenza dagli organismi e dagli standard industriali a guida occidentale, facendo maggiore affidamento sulla catena di approvvigionamento cinese.
Analogamente, giovedì 25 marzo, in risposta alle campagne diffamatorie dell’Occidente, in Cina è diventata popolarissima la campagna sulle piattaforme social chiamata “Io sostengo il cotone dello Xinjiang”: questo slogan, infatti, manifesta l’oltraggio del popolo cinese a fronte della posizione degli USA e dell’opinione pubblica verso la campagna del cotone anti-Xinjiang, tanto che diverse aziende cinesi che collaboravano con la BCI hanno deciso di dimettersi dall’ONG, a partire dall’idea che “il cotone bianco e puro dello Xinjiang non dovrebbe essere imbrattato né contaminato”.
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